Era la notte del 20 ottobre 2002, un sabato come tanti altri.
Io vivevo e continuo a vivere a Roma. Non avevo voglia di uscire, così spensi il telefonino e andai a dormire. L’indomani al risveglio un caro amico d’infanzia, con cui divido l’appartamento, mi chiama in disparte, dice che i miei genitori, che vivono ad Alcamo in Sicilia, avevano provato a chiamarmi tutta la notte; e che Osvaldo, mio fratello, aveva avuto un incidente e non ce l’aveva fatta.
Mi sono sentito morire dentro, ero completamente smarrito, non riuscivo a crederci: Osvaldo mi aveva chiamato solo la sera prima, mi aveva detto che era riuscito a trovare lavoro in un frantoio, che avrebbe messo un po’ di soldi da parte e che, finita la raccolta delle olive, mi avrebbe raggiunto a Roma: è stata l’ultima volta che l’ho sentito.
Prendo il primo volo e torno ad Alcamo per congiungermi con i miei genitori; e lì apprendo che Osvaldo quella notte era uscito di casa con alcuni amici passati a prenderlo in macchina e ad Alcamo Marina, località nella quale da sempre trascorriamo con la famiglia le vacanze estive, era sceso per comprare le sigarette; stava uscendo dal bar sulle strisce pedonali quando un’auto ad alta velocità lo ha travolto facendolo letteralmente volare in aria : è morto durante la corsa in ambulanza verso l’ospedale, su quella stessa strada dove qualche anno prima il ragazzo che l’ha ucciso lo aveva investito una prima volta mandandolo in ospedale per un mese con il ginocchio spezzato. Assurdo, il destino.
Ancora più assurdo quello che è successo dopo: all’investitore non è stato fatto nessun controllo, col motivo (leggo dal verbale dei carabinieri) che l’etilometro in dotazione non funzionava; nessun controllo neanche in ospedale perché (stavolta leggo dal referto medico) non c’erano i reagenti necessari.
Morale? L’indomani il responsabile era tranquillamente in giro per Alcamo, guidando un’altra auto. Non solo, né lui né nessuno dei suoi famigliari si è degnato di farsi sentire o vedere.
Dopo quasi un anno la sentenza penale patteggiata: sei mesi di reclusione con sospensione della pena per un periodo di cinque anni. Routine. Nient’altro.
Abbiamo dovuto essere noi familiari a sollecitare il nostro legale per avere almeno la sospensione della patente. Il prefetto non si è ancora pronunciato. E ancora irrisolta è pure la questione del risarcimento, con l’assicurazione che sembra giocare come il gatto col topo, che cerca di scoraggiarci ventilando la possibilità che la mancata accettazione di quanto offre porti a una condanna ancora inferiore: è insopportabile renderci conto che per loro la morte di Osvaldo rappresenta solo un costo da ridurre quanto possibile.
Così oltre al dolore immenso i miei genitori ed io dobbiamo subire l’umiliazione di chi, e fra questi anche i nostri legali, ci dice di lasciar perdere tutto. Tanto, dicono, Osvaldo non ritorna più. Assurdo anche questo, perché lui è ancora con noi, non è mai andato via dai nostri cuori.
Ti vogliamo bene.
Papà, Mamma e Fratello |